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Giornata della Memoria, 20 poesie sull’Olocausto e la Shoah

Poesie Olocausto e Shoah - Aforisticamente

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Il 27 gennaio di ogni anno cade il Giorno della memoria, ovvero la giornata dedicata al ricordo dello sterminio nazista degli ebrei, la Shoah, conosciuta anche come Olocausto.

La data del 27 gennaio è stata scelta perché in quel giorno nel 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.

“Dopo Auschwitz scrivere ancora poesie è barbaro” è la frase del filosofo Adorno che ha suscitato tante polemiche ma anche stimolato a riscoprire le voci poetiche più intense della Shoah.

In occasione della Giornata della memoria presento una raccolta di 20 poesie sull’Olocausto e la Shoah per capire meglio cosa è stato questo evento e cosa ha significato per chi l’ha vissuto in prima persona. E, soprattutto, per non dimenticarlo.

Tra i temi correlati presento una raccolta di Frasi, citazioni e aforismi sull’Olocausto e la Shoah e Frasi, citazioni e aforismi sulla Giornata della Memoria.

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Giornata della Memoria, 20 poesie sull’Olocausto e la Shoah

Primo Levi, Shemà (poesia di apertura del libro “Se questo è un uomo”)

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

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Benjamin Fondane, Ricordatevi

Ricordatevi solo che ero innocente
e che, come voi, mortali di quel giorno,
avevo avuto, anch’io, un volto segnato
dalla collera, dalla pietà e dalla gioia,
un volto d’uomo, semplicemente!

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Itzhak Katzenelson, E così avvenne

E così avvenne… e questo fu l’inizio… Cieli, ditemi perché, perché!
Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo?
La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli,
voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna!

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Itzhak Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato

La fine. Di notte il cielo è incandescente.
Di giorno si copre di fumo
e di notte torna ad accendersi. Orrore!
Come ai tempi del nostro inizio nell’arido deserto:
di giorno una colonna di nubi
e di notte una colonna di fuoco.
Allora il mio popolo, forte della sua fede,
camminava gioioso incontro a una nuova vita,
e ora – la fine, l’ultimo passo…
Ci hanno massacrato tutti sulla terra;
ci hanno sterminato tutti.

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Anna Frank, Aprile

Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai
ad essere Felice.
Anna Frank

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Joyce Lussu, Un paio di scarpette rosse

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

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Pavel Friedman, La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!

L’ultima
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

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Lodovico Belgiojoso, Mauthausen – Gusen, novembre 1944

Dal mattino alla sera
dalla sera al mattino,
girano le macchine maledette:
vibrano i forni dove ribolle
il sale rovente.
Noi, pezzi di ricambio,
sostituiti ogni dodici ore,
siamo condotti al lavoro e al riposo
in lunghe colonne. Incrocia
la colonna che sale alla fabbrica
quella che scende nel campo;
ci mettono a giacere
in tanti scaffali.
Ci danno il cibo giaccia a goccia
come l’olio alle macchine e quando
cade un compagno e non si rialza
viene rifuso nell’atmosfera
del crematorio.

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Paul Celan, Vehuda Amichai

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo:
Essi non hanno immagine corporea né corpo.

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Fabrizio Caramagna, Auschwitz-Birkenau

Si entra ad Auschwitz-Birkenau.
Il dolore e l’assurdo ci colpiscono in pieno petto
come una ventata gelida.
Percorriamo il campo, le baracche, i forni crematori.
Ascoltiamo le storie di alcuni sopravvissuti.
L’aria è opprimente.
Un nodo in gola ci stringe come volesse tagliarci.
Alcune ore di sospensione.
La guida ci saluta. La visita è finita.
Si esce da Auschwitz-Birkenau.
È Auschwitz-Birkenau che non uscirà mai
da chi ci è entrato.

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Salvatore Quasimodo, Auschwitz

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

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Nelly Sachs, Coro dei superstiti

Noi superstiti
dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui nostri tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumare via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a lui dalla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi –

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Dan Pagis, Scritto a matita in un vagone piombato

Qui, in questo convoglio,
io Eva
con mio figlio Abele
Se vedrete mio figlio maggiore
Caino, figlio di Adamo,
ditegli che io

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Paul Celan, Fuga di morte

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini
e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra
e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate
egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri
vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti
egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco
egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria
e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria
egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

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Ko Un, Ad Auschwitz (descrivendo la sua visita ad Auschwitz dopo la guerra)

Ad Auschwitz
pile di occhiali
montagne di scarpe
sulla via del ritorno
ognuno fissava fuori dal finestrino in direzione diversa.

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Vivian Lamarque, Sicuri nelle vostre tiepide case

Annoiato dal Giorno della Memoria
lui che tutti i santi giorni dell’anno
mai si annoia dell’insulso dejà vu della tv
giunta per una volta la fine di gennaio
“ancooora?” dice e cambia canale
per guardare anziché storia di orrori
horrori con l’h, come vi aveva ben previsti
Primo Levi voi che vivete sicuri nelle vostre
tiepide case a sera con scolpito dentro il cuore niente.

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Izet Sarajlić, Il proprietario delle scarpe n. 43

Quanto amore
un calzolaio d’anteguerra
alla periferia di Leopoli
ha impiegato lavorando questi sandali
perché calzandoli
un bambino
corresse nel suo maggio.

Ed ecco,
adesso questi sandali
sono esposti nel museo di Auschwitz.

Uno potrebbe quasi
sentirsi colpevole.
Un uomo
arrivato alle scarpe numero 43.

E il quale,
nel 1941
anche lui
correva in identici sandali da bimbo.

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Itzhak Katzenelson, Canta

Canta, prendi l’arpa nella tua mano vuota, svuotata e lieve,
sulle sue corde magre getta le tue dita dure,
come cuori in pena, l’ultimo dei canti,
canto degli ultimi yidn sul suolo d’Europa.

Come faccio a cantare? Come aprire la bocca
se sono rimasto io solo solamente?
Mi moglie, i miei due cuccioli, orrendo
un orrore mi scuote, piangere, da lontano sento piangere.

Canta, canta, solleva in alto la tua voce di pena e di rovina.
Cerca, cercalo lassù da qualche parte, se ancora ci sta.
E cantagli, canta per lui l’ultimo canto dell’ultimo degli yidin,
vissuto, morto, non sepolto e nient’altro.

Come faccio a cantare? Come posso levare la testa?
Mia moglie portata via, il mio Bentzi e Yomele,
piccolino,
non li ho più e non mi lasciano mai.
Ombre scure dei miei luminosi, ombre gelate e cieche.

Canta, canta un’ultima volta ancora sulla terra, getta
la testa indietro, rovescia gli occhi pesanti su di lui
e canta per l’ultima volta, suona per lui sull’arpa.
Non ce n’è più di yidn. Messi a morte
non ce ne sono più.

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Elsa Morante, La sera domenicale

Per il dolore delle corsie malate
e di tutte le mura carcerarie
e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani,
e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi
e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi
e i sussulti della concezione
e il sapore dolciastro del seme e delle morti,
per il corpo innumerevole del dolore
loro e mio,
oggi io ributto la ragione, maestà
che nega l’ultima grazia,
e passo la mia domenica con la demenza.
O preghiera trafitta dell’elevazione,
io rivendico per me la colpa dell’offesa
nel corpo vile.
Stàmpami nella mente malcresciuta
la tua grazia. Io ti ricevo

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Vittorio Sereni, Versi

Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio anch’esso d’anni.
No, non è più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.
Nemmeno io volevo questo, so
che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso e
passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti, se domani
tu stesso te ne scordi.

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Hans Sahl, Memorandum

Un uomo, che alcuni ritenevano
saggio, dichiarò che dopo Auschwitz
non fosse più possibile alcuna poesia.
Sembra che delle poesie
l’uomo saggio non abbia avuto
alta considerazione –
quasi che queste servissero a consolare
l’anima di sensibili contabili
o fossero vetri intarsiati
attraverso i quali si guarda il mondo.
Noi crediamo che le poesie
siano ridiventate possibili
ora più che mai, per la semplice ragione che
solo in poesia si può esprimere
ciò che altrimenti
sarebbe superiore a ogni descrizione.